CAPITOLO 5: C.

Il giorno in cui ho conosciuto C. era un giorno d’inverno come un altro. Faceva freddo e io usavo ancora mettere le sciarpe, indumento che adesso odio e che trovo assolutamente privo di eleganza.
Lui era in un locale e parlava con altre persone. Io anni fa ero molto più aperta e socievole e perciò mi sono insinuata nei suoi discorsi come se fosse uno dei miei più cari amici. Si parlava di musica e di concerti. E quando così, di punto in bianco, ho iniziato a dire la mia, lui ha tirato su un’espressione stupita ed interessata, quasi come se non si aspettasse che avessi qualcosa da dire su quell’argomento.
Ognuna di noi ha avuto un C.
Una persona di cui ricordiamo esattamente il giorno in cui l’abbiamo incontrato. Ricordiamo come era vestito, ricordiamo che tempo faceva, ricordiamo ogni minimo sguardo e ogni minima parola di quei discorsi, quasi come se fosse successo ieri, quasi come se succedesse tutti i giorni.
C non era bello, ma aveva qualcosa di magnetico addosso. Nessuna delle mie amiche ha mai visto la bellezza che vedevo io, ed è proprio per questo che mi rendo conto che le persone si trovano senza saperlo. Sono energie che si trasmettono inconsapevolmente, energie piacevoli, energie positive.
Da quell’incontro è passato un anno prima che succedesse qualcosa di concreto tra noi. Un anno in cui ci chiedevamo a vicenda di andare nei posti, senza mai però incontrarci da soli.
Avevamo paura. Abbiamo sempre avuto paura l’uno dell’altra. Il fatto è che molto spesso l’energia di cui parlavo prima è talmente forte che probabilmente è difficile tenerla a bada. Abbiamo paura di perdere il controllo, di non capirla, abbiamo paura che ci porti dalla parte sbagliata. E questa paura ce la siamo portata appresso per tre anni. Fino a che io ho deciso che non avrei più voluto provarla.
Così me ne sono andata.

CAPITOLO 4. PARTIRE DALLA FINE

Il giorno in cui ho capito che non avrei più potuto continuare con la vita che stavo vivendo mi trovavo a San Francisco. Ero su un Uber e attraversavo il Golden Gate Bridge. L’autista stava ascoltando Ed Sheeran alla radio e io pensavo di vivere uno dei momenti più belli della mia vita.
Abbastanza comprensibile il pensiero che tornare a Roma sarebbe stato devastante, ma soprattutto tornare a Roma avrebbe significato:
1. Riprendere a drogarsi.
2. Riprendere quella strana relazione che durava da già due anni con quella persona tossica ed assolutamente cinica e senza cuore.
3. Riprendere tutti i miei rituali bulimici ogni volta che, il giorno dopo, mi pentivo dei numeri 1 e 2 (vedi sopra).

Nella mia testa erano già cambiate delle cose. Una mia amica era morta sotto le macerie di Amatrice e io sentivo che quel momento così grande di sofferenza mi avrebbe portato da qualche parte. Non so se è mai successo a qualcuno: ad un certo punto ti fermi e metti su un piatto della bilancia tutte le cose per cui vale la pena vivere  e sull’altro tutte le cose da eliminare.
Sono arrivata all’aeroporto di Roma con la convinzione che avrei smesso con tutto: cocaina, relazioni sbagliate, bulimia.
Ed infatti così è stato.

Capitolo 3. La mia prima volta

Sono sempre stata una ragazza piuttosto in carne. Niente di particolarmente esagerato o di assolutamente irrimediabile, ma quei chili in più mi hanno sempre fatto pensare che fossero il problema più grande della mia vita. Tutta la ragione della mia infelicità attribuita a delle forme che oggi definirei semplicemente prosperose, ma che anni fa consideravo altamente invalidanti e vincolanti.
Beh nessun ragazzo mi guardava. Anche se potrei tranquillamente dire che in realtà ero io a non voler essere guardata. Con il tempo ho capito che fortunatamente il mondo è talmente vario che potresti piacere davvero a chiunque ma sicuramente mai a nessuno.

Il ragazzo che mi ha fatto perdere la verginità aveva tre anni in più di me, un nome da imperatore romano e una cortissima relazione adolescenziale e platonica con la mia migliore amica. Lei si considerava innamorata pazza ma per lui non era mai scattata nemmeno una piccola luce fioca di una lampadina. Fatto sta che decisero (quasi) pacificamente di finirla lì. La mia amica pensò bene di utilizzarmi come quella che avrebbe dovuto fargli cambiare idea. E vuoi un messaggio qua, una chiamata là, chattate su MSN lunghe notti intere, che a quanto pare l’interesse tra di noi era sempre più palese.
Ed ecco qui scattato un amore di quelli che proprio scrivi sul diario, prime emozioni che quando sei più piccola nemmeno riesci a descrivere. Ma ti senti proprio su una nuvola di felicità, il settimo cielo.
Per me durò 2 anni. Ero completamente cotta, presa, stordita, ammaliata.
Una settimana durò per lui.
Era svanito tutto. Non vedeva più nulla di interessante in me. Se non una possibilità di farsi una scopata quando e come gli pareva.

Torniamo quindi a quel giorno. Il giorno in cui persi la verginità in realtà in qualche modo l’avevo già persa. Lui, il ragazzo con il nome da imperatore romano, era fissato con il culo. Ebbene si. La mia prima volta fu da dietro. E continuò così per mesi.
A lui non interessava altro. Non interessava baciarmi, non interessava accarezzarmi e non gli interessava nemmeno la mia vagina. E così passava le sue serate a villa borghese a scoparmi il culo mentre io in qualche modo facevo finta che fosse la cosa più eccitante del mondo soltanto per compiacerlo o per dare un senso a quella strana relazione.

Il giorno che si decise a cambiare posizione eravamo a casa mia.
Nessuna accortezza, nessuna preoccupazione. Mi ha girata e me l’ha infilato dentro.
Un colpo netto, duro. Un dolore mai provato prima. L’antitesi dell’eccitazione.
Un po’ di sangue sulla sua canottiera bianca e subito l’esclamazione (che giuro non scorderò mai per tutta la mia vita): “Maledetta te e la tua stupida verginità”.
In quel momento non pensai a nulla. Rimasi immobile e mi feci scopare.
Poi quando si alzò, si rimise i pantaloni e se ne andò senza nemmeno salutarmi, iniziai un pianto lungo forse ore, forse minuti. Non ricordo, ricordo solo che ero sdraiata sul mio letto a piangere e a pensare a quanto in quel momento potessi essere un corpo privato di tutto il suo significato.
Ci sono, ma non esisto.
Non sono nulla, non valgo nulla, non ho importanza.

E mentre le mie amiche raccontano storie d’amore e avventure romantiche io me ne sto zitta ad ascoltarle. Mi vergogno di quello che è successo a me, mi piacerebbe condividerlo, ma non posso. Sarebbe troppo umiliante e sicuramente verrei giudicata per il modo in cui mi comporto.
Così quando mi chiedono “come va con Adriano?” rispondo semplicemente “tutto bene.”

Capitolo 2. Il mio primo bacio

Il mio primo bacio l’ho dato tardi, a un ragazzo di cui non ho mai saputo il nome.
Avevo 17 anni e ricordo che mi ero promessa che se non avessi baciato un ragazzo entro i 18 anni mi sarei uccisa. Immaginavo la scena, mi sarei lanciata dalla finestra di camera mia in un freddo pomeriggio invernale. Avrei approfittato del momento in cui nessuno sarebbe stato in casa e avrei fatto un salto. Così, senza pensarci troppo. Ero sicura che quello sarebbe stato il mio destino. Tutte le mie amiche avevano già avuto le loro esperienze, uscivano con i loro fidanzatini, ed io ero costretta spesso ad essere la terza incomodo.
Quella sera avevo deciso. Stasera è la sera giusta. Staserà succederà.
Mi ricordo che c’era una festa, in questa villa fuori Roma, organizzata da non so chi per festeggiare non so quale occasione. Era il periodo in cui compravamo bottiglie di vodka che facevamo finta di bere come acqua minerale, quando in realtà a malapena riuscivamo a fare un sorso. Era il periodo in cui le sigarette si sprecavano e in cui forse facevi più finta di essere ubriaco, piuttosto che esserlo veramente.
Insomma ero uscita nel pomeriggio per comprare qualcosa di carino. Ed ero uscita con mia madre. Non con un’amica, non con mia sorella, CON MIA MADRE. Facevo prima a non andare, il mio destino era già segnato. Cosa mi era venuto in mente? Perché avevo scelto lei? Per carità, voglio bene a mia madre, la trovo una persona fantastica, anche lei a volte ha de bei gusti, ma sicuramente non mi avrebbe aiutata, avrebbe scelto per me qualcosa di più elegante, meno esplicito. Avrebbe pensato che stavo andando a una festa di compleanno con pizzette, patatine e Coca Cola, non ad un festino con annessi alcol e droghe.
E poi il mio fisico non mi ha mai aiutata. Non potevo permettermi nulla di esagerato. Dovevo scegliere qualcosa che mi coprisse le braccia ma anche le cosce ma anche i fianchi, che non fosse troppo attillato ma nemmeno troppo largo, di un colore di quelli che dimagriscono ,ma nemmeno troppo scuro. Un’impresa epica. Dopo non so quanti tentativi optai per un vestito rosso che arrivava fino alle ginocchia. Mia madre mi consigliò di mettere sopra un coprispalle bianco. Mi prestò una sua borsetta a tracolla bianca e decisi di mettere un paio di tacchi altezza 12 cm, BIANCHI. Davvero non so perché decisi di uscire quel giorno. Sarà stata la disperazione, la speranza che forse quella volta mi sarebbe andata bene (povera stupida, quello era solo l’inizio) o forse ero davvero convinta di essere carina. Mia madre era così contenta e mi trasmetteva così tanta eccitazione che non potevo non averne anche io. Era talmente euforica che per un attimo mi era anche venuto in mente di portarmela. Poi sono tornata sulla Terra e mi sono detta: “Smettila, stai crescendo, è ora di uscire dal nido, è ora di darsi una svegliata”.
Vabbè insomma, arrivo alla festa. Minigonne a non finire, cosce di fuori, tette di fuori, gente che si apparta di qua, gente che si apparta dillà. Alcol, erba, cocaina, ragazzi che ballano, ragazzi che chiacchierano, ragazzi, ragazzi ovunque. Panico. Cosa faccio? Mi bevo una cosa? Mi fumo una sigaretta? Perché non riesco ad essere tranquilla? È una maledetta festa, non è niente di che, posso sopravvivere. E poi non sono sola, ci sono i miei amici, posso farcela, posso farcela. Nella mia tracolla bianca avevo una di quelle fiaschette che fanno tanto film anni ’90 piena di ruhm bianco rubato a mio padre dallo scaffale dei liquori. Ne bevo un goccio così, giusto per scaldarmi. Ne bevo un secondo goccio, e poi un terzo, forse anche un quarto. Arriva una mia amica che mi trascina al bancone del bar e mi ordina un cocktail. La mia vista già inizia ad offuscarsi. Bevo il cocktail. Esco a fumare. Bevo un altro cocktail. I piedi mi fanno malissimo. Sono l’unica che ha delle scarpe così alte? Perché la testa mi gira così tanto? E perché mi viene da ridere? E perché mi viene anche un po’ da vomitare?
Arrivano altre due mie amiche che mi prendono per mano e mi portano nella sala dove c’è la musica. Come una piccola bambina timida e indifesa inizio ad accennare qualche movimento di bacino, alzo un po’ le braccia, faccio finta di cantare. Mi sto quasi divertendo, in realtà sto bene. Girano tutti, girano le mie amiche, giro io, fatico a vedere le persone che mi stanno intorno. Quando ad un certo punto si avvicina questo ragazzo e in meno di un secondo mi infila la lingua in gola. Il primo bacio che tanto aspettavo al sapore di vodka e sigarette. Un ragazzo che non aveva capelli da accarezzare. Questi sono gli unici particolari che ricordo.
Mi dice di seguirlo da una parte. “Un luogo più appartato” dice. Mi tiene la mano e io lo seguo senza dire niente. Mi porta dietro una ringhiera e inizia a baciarmi dappertutto. Sul collo, sulle mani, sul seno. Mi dice “sei bellissima”. Io non capisco. Sei bellissima? Ma che dice, è impazzito, forse non mi ha vista bene, forse me lo sto immaginando. Ma poi che cosa succederà ora? Devo prepararmi al peggio? Adesso? No no no no. Non sono preparata, non so come si fa. Io volevo solo conoscere un ragazzo carino e chiacchierarci un po’ e magari poi mi avrebbe riaccompagnata a casa e mi avrebbe dato il bacio della buonanotte. Il giorno dopo saremmo usciti e anche quello dopo ancora. Lui mi avrebbe presentato ai suoi genitori, poi di lì a poco sarei rimasta incinta e saremmo andati a vivere in una villetta su un lago fatta da noi. Avremmo dipinto le pareti indossando delle salopette e facendo l’amore sui giornali sporchi di vernice. Nostra figlia si sarebbe chiamata Aria e avremmo vissuto per sempre lì, raccontandoci le storie sulla veranda di casa guardando il lago al tramonto.
E invece adesso c’era una persona davanti a me e io non capivo che cosa volesse fare sul serio. Mi veniva da piangere, avevo paura. Non ero pronta. Quindi i ragazzi sono così? Quindi ti saltano addosso? Quindi non esiste il romanticismo? Nessuno ti porta a cena fuori? Nessuno ti compra i fiori? L’ho scansato e sono scappata di corsa inciampando nel fango e sporcandomi tutte le scarpe. Sono rimasta tutta la sera ferma ad un angolo a riflettere su quello che era successo. Finalmente avevo dato il mio primo bacio. Quello che tanto aspettavo, quello per cui invidiavo le mie amiche, quello di cui tutti parlano, quello che ricorderai per sempre. E non so a chi l’avevo dato.
Esattamente una settimana dopo ho perso la verginità. Ma questa è un’altra storia.

Capitolo 1

Ho sempre sognato un amore perfetto.
Guardavo le serie televisive in cui gli innamorati si prendevano per mano e si dicevano dolci parole romantiche attraversando viali pieni di ciliegi in fiore, e pensavo che prima o poi sarebbe accaduto anche a me. Anzi, ne ero proprio sicura.
A 10 anni ebbi la mia prima vera cotta. Provavo sensazioni mai sentite prima, mi sentivo così leggera ma allo stesso tempo spaventata da quel turbine estraneo di emozioni atipiche. Lo volevo, lo volevo a tutti i costi. Ma a lui piaceva la mia migliore amica, più alta, più magra, più bella e simpatica di me.
A 12 anni la seconda. Più consapevole, più riflessiva ma più spaventosa di quella di prima. Eravamo al mare. E per la prima volta in vita mia vidi il suo sesso. Per sbaglio, roba di 3 secondi forse. Ma rimasi scioccata. Lui sembrava interessato (o almeno lo sembrava nella mia testa), mi guardava con occhi diversi, si preoccupava per me, speravo potesse accadere qualcosa. Finchè poi al villaggio non è arrivata una ragazza più grande, più bella, più magra di me. E non mi ha più guardata con quegli occhi.
Alle medie i ragazzi guardavano sempre le mie amiche, io ero sempre “l’amica grassa di“.
Così come al liceo. Nessuno sguardo per me, nessun interesse, nessuna storiella da raccontare.
Iniziano a venirmi in testa strane idee, inizio a pensare che forse le ragazze in carne non meritano di stare con nessuno, inizio a credere che non essere perfetti non vada bene in questa società. Inizio a vergognarmi delle emozioni che provo, di come sono, delle persone che mi possono piacere. Inizio a chiudermi in me stessa. Inizio a pensare di non valere nulla. E queste idee si fanno sempre più forti, alimentate da tutte quelle persone che hanno attraversato la mia vita finora e che non hanno fatto altro che confermare la brutta impressione che ho sempre avuto di me stessa.
Idee irrazionali e disfunzionali, che hanno accompagnato la mia vita alimentando insicurezze, problemi alimentari, dipendenze da droghe, dipendenze da persone, paura dell’abbandono, gelosie, litigi, amicizie rotte, abbandoni universitari.
Fino ad oggi. Oggi ho capito di aver sempre sbagliato. Che idee come queste non hanno senso. Ci ho messo un po’ per capirlo, e mi è servito tutto ciò che ho passato.
Ora voglio raccontarlo.